venerdì 30 novembre 2007

La foresta Amazzonica: diario di viaggio tra utopie e realtà


Prepararsi ad un viaggio in Amazzonia significa imbattersi, già prima della partenza, in una serie di immagini che la grande foresta del nord del Brasile e il suo fiume, immenso e sinuoso, promettono ed evocano.
Anche io ho avuto il privilegio di provare tali emozioni vivendo una delle esperienze che ad oggi riscopro essere tra le più significative della mia vita.
Sono partita il 15 novembre dello scorso anno per un progetto di Cooperazione (materia della quale mi occupo da diversi mesi) che prevedeva la consegna di sedici radio ad energia solare ad uno dei gruppi indigeni che vivono isolati nella foresta Amazzonica.
Per raggiungere questa popolazione di indios isolati siamo partiti dall’aeroporto di Santarem, una piccola città nel Nord-Est dello stato del Parà, dove ad attenderci c'era un caldo umido, soffocante e appiccicoso. Con un piccolo aereo a quattro posti, dopo un’ora e quaranta di volo in direzione Nord verso il confine con il Suriname, si atterra su una pista lunga non più di 500 metri, dove, ad aspettarti ci sono loro, gli Zo’è.
Subito ci sono loro gli Zo’è. Definiti dagli antropologi come l’ultimo popolo indios “intatto” dell’Amazzonia, sono stati conosciuti agli inizi degli anni 90 come uno degli ultimi popoli indios ad entrare in contatto effettivo con la società occidentale. Impossibile non rimanere rapiti dalla loro cortesia, dalla loro innocenza che ad un primo impatto sembra irreale ma successivamente consente di comprendere quanto questo popolo sia un’unica cosa con la foresta.
Che la foresta amazzonica non fosse più intatta, lo si sapeva già da un po’. Oggi però i dati diffusi dalle moderne tecniche satellitari rivelano che i danni provocati dall’attività di deforestazione sono assai peggiori di quello che si pensava. A parte i ben noti danni ambientali provocati dalla deforestazione, ci sono ragioni morali, culturali e sociali per salvaguardare questo prezioso ecosistema. Il graduale avanzamento dello sviluppo economico organizzato in regioni remote minaccia di distruggere le ultime popolazioni tribali, il cui isolamento ha permesso il preservarsi di stili di vita tradizionali in perfetta armonia con l’ambiente naturale. Si tratta di comunità depositarie di vasti retaggi di conoscenze ed esperienze tradizionali che collegano l’umanità alle sue remote origini. La loro scomparsa costituisce non soltanto una perdita per la società nel suo insieme, che avrebbe molto da imparare dalle loro tradizioni, ma aggrava il pericolo che incombe sulla foresta che essi abitano e proteggono da secoli.
Ora, l’equilibrio ambientale e climatico del pianeta, che tanto sta a cuore all’Occidente, non può prescindere dalla salvaguardia di questi abitanti delle grandi foreste e dalla tutela dei loro modi di vita tradizionali. La chiave per la sopravvivenza di queste popolazioni risiede nel riconoscere il loro diritto alla terra e alle altre risorse, alla proprietà collettiva e inalienabile dei loro territori. In altri termini occorrono nuove strategie in grado di ripensare il complesso rapporto uomo-ambiente. Ed è proprio attraverso la vivace attività di alcune Ong, sostenute e seguite con attenzione dai Verdi Italiani, che sta prendendo forma una nuova strategia “antideforestazione” che consiste nel promuovere il commercio dei prodotti forestali direttamente da parte degli abitanti dei villaggi delle rive del Tapajos, l’affluente del Rio delle Amazzoni. A ben vedere infatti gli effetti della deforestazione hanno una grave incidenza a livello sociale e cioè nell’impatto sulle popolazioni locali, la cui sopravvivenza è intimamente connessa all’integrità della foresta. L’idea portata avanti dalle organizzazioni internazionali è quella di promuovere l’economia della foresta per affrontare la battaglia contro gli ultimi invasori: i sojeros, cioè i produttori di soia che abbattono la foresta pluviale per fare posto alle loro piantagioni. L’attività di queste ONG è riuscita in pochi anni a ridurre la mortalità infantile del 75% e viceversa ad incrementare il tasso di scolarizzazione, a creare un’alternativa economica in grado di bloccare la fuga verso le periferie disperate delle grandi città. Sono state introdotte forme di microcredito e attraverso la raccolta di caucciù da parte dei siringueiros si è notevolmente sviluppato l’artigianato della foresta. Inoltre grazie ad un sistema di scambio di informazioni e a un corso di specializzazione, il design delle borse e degli accessori in caucciù è migliorato. Su internet è cominciata la vendita diretta dei prodotti in gomma naturale. E’ nato un giornale sul web per collegare le varie comunità ed è stata avviata la promozione di un circuito di turismo sostenibile che comincia a dare i suoi frutti.
Tutti questi interventi hanno bloccato la migrazione dei popoli della foresta, determinandoli a scegliere di restare, dandogli una speranza contro l’orda dei pistoleros e dei sojeros.

E’ infatti la soia, in gran parte transgenica, l’imputata numero uno di questa drammatica deforestazione. La foresta muore sotto l’attacco delle motoseghe e del fuoco, con l’obiettivo principale di creare grandi spazi per la coltivazione dando manforte alla crescita accelerata dell’agrobusiness.
I dati sono sconcertanti: da quando l’uomo ha iniziato l’attacco all’Amazzonia sono spariti 680.000 chilometri quadrati, Francia e Portogallo messi insieme, solo nel 2004 sono scomparsi oltre 25.000 chilometri quadrati di Amazzonia, un’area grande quanto la Sicilia; il Brasile è oggi il primo esportatore di soia dopo aver conquistato il mercato cinese e entro due anni supererà gli Stati Uniti come maggiore produttore mondiale.
A maggio il presidente Lula si è recato in Cina insieme al governatore del Mato Grosso Blairo Maggi, discendente di emigrati bresciani, il maggiore coltivatore privato di soia del pianeta. Maggi è colui che con l’appoggio del governo brasiliano ha ideato una rete di terminal portuali lungo i fiumi che attraversano l’Amazzonia. Le navi vengono rifornite di soia dai tir che giungono dalle coltivazioni interne alla foresta per rendere più capillare lo sfruttamento e irreversibile la distruzione. Le più grandi multinazionali, come la Cargill, la Bounge, la Monsanto, hanno a loro volta installato i loro terminal lungo i fiumi Tapajos e Arapiuns. Grossi appezzamenti di foresta sono stati ceduti anche per cifre inferiori a 20 euro l’ettaro. A Ulianapolis si sta già piantando soia transgenica.
In meno di due anni le piantagioni sono arrivate ad oltrepassare il rio delle Amazzoni e a mettere a rischio la vita dei popoli indios degli Xavantes che vivono nella zona delle sorgenti del fiume Xingu’ e gli indios isolati degli Zo’è: un popolo è stato scoperto solo pochi anni fa. Se non si fermerà questa distruzione nel 2035 la foresta amazzonica sarà trasformata in una savana semiarida.
Questa devastazione ambientale avviene in un clima di violenze inaudito, coperto dal silenzio e non conosciuto dall’opinione pubblica.
L’Amazzonia e la questione degli indios non sembra però fra le priorità del goveno Lula. Nel PT (partito trabahadores) ha vinto la linea sviluppista e industrialista che sta sacrificando, in nome del prodotto interno lordo, non solo il futuro del Brasile ma quello di tutto il pianeta. E di fronte ai massacri di indios il silenzio regna sovrano.
Quanto sta accadendo in Amazzonia deve essere fermato se vogliamo tutelare il delicato equilibrio fra l’ambiente e i popoli che lo abitano e lo difendono, e fare in modo che 600 milioni di tonnellate di CO2 all’anno continuino ad essere pulite dalla foresta.
La foresta Amazzonica continua a rimpiccolirsi, tuttavia il nord del pianeta sembra aver dimenticato che col diminuire di queste aree si restringono anche le prospettive dell’umanità.